L’archivio digitale della Banca d’Italia è una miniera d’oro. È come passeggiare in una stanza dove la storia del Paese scorre davanti ai vostri occhi. L’altro giorno ho trovato una seriosa rivista del 1940 dal titolo “Documenti dell’autarchia e del lavoro”, dove all’improvviso è comparsa la pubblicità di un trattamento di bellezza (qui sotto). Come vedete, è grottesca. La foto licenziosa si giustifica in quanto la donna viene presentata come una sorta di macchina da figli. Per fortuna da allora abbiamo avuto decenni di progresso civile. Nessuna nostalgia né comprensione per il clima di allora, dunque. In niente. Ma oggi abbiamo il problema opposto, un problema post-pandemico: li avete visti gli ultimi dati sulla natalità in Italia?

Le conseguenze economiche della denatalità in Italia

Ve li riassumo, con un grazie al presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo che mi ha passato il foglio Excel che si porta dietro ovunque. Quei dati sono una sorpresa, almeno per me. Pensavo che quest’anno avremmo avuto un un po’ di ripresa delle nascite in Italia. Il 2021 aveva segnato un salto verso il basso (-5,7% sul 2020), perché nel pieno dei lockdown e della maxi-recessione da Covid molte coppie devono aver rimandato la scelta di un figlio. In questo ci siamo regolati come i francesi, che nei primi tre mesi del 2021 hanno fatto crollare le nascite del 6,7% (ma non come i tedeschi, che devono avere molta più fiducia nel loro welfare e hanno approfittato dei lockdown per concepire figli come non gli accadeva da tempo).

Ma insomma io pensavo che in Italia anche la natalità, come l’economia, potesse rimbalzare. L’estate e l’autunno scorsi erano stati inusuali per il clima inusuale di recupero che sembrava si respirasse. Eravamo stati la sorpresa in Europa per i dati di crescita. Avevamo vinto gli Europei di calcio e tutte quelle medaglie alle Olimpiadi. Avevamo gli oltre 200 miliardi di Recovery da spendere, mentre persino il clima politico per una volta sembrava di relativa unità nazionale. L’aggressione russa e l’inflazione non le vedevamo arrivare. Soprattutto i depositi liquidi delle famiglie italiane nel 2021 stavano salendo di 41 miliardi (a quota 1.163 miliardi) e quelli delle imprese di altri 51 (a quota 428 miliardi). Intanto il governo lavorava all’assegno unico per i figli, poi entrato in vigore.

Situazione migliore del solito per scelte di procreazione, no? Così pensavo io. E i dati di gennaio in ripresa su un anno prima sembravano darmi ragione. In realtà mi sbagliavo. Ora abbiamo i dati dei primi tre mesi del 2022, cioè i concepimenti fra marzo e giugno dell’anno scorso e sapete com’ è andata? La terza peggiore caduta delle nascite nella serie di 14 anni da quando, con il crash di Lehman, è iniziata l’attuale recessione demografica italiana. C’è un meno 3,9% di nuovi nati, dopo il meno 5,7% di un anno fa. Intanto i francesi fanno davvero il rimbalzo e tornano quasi ai livelli pre-Covid, mentre noi italiani ormai abbiamo un decimo di nascite in meno rispetto al 2019 (e un terzo in meno rispetto al 2008). Di questo passo di Italia anche quest’anno perderemo qualcosa come 400 mila abitanti, includendo nel calcolo anche i flussi migratori.

In sostanza in Francia e in Germania stanno nascendo duemila bambini al giorno, in Italia mille. In questo senso è un’illusione che le tre nazioni siano di ordini di grandezza comparabili. Lo sono nei numeri generali di popolazione, ma non nelle classi d’età più giovani. Non in quelle che hanno dalla loro parte l’energia, le nuove competenze e il futuro. Cosa voglio dire? Pensate alle squadre nazionali di calcio: tra vent’anni i ct della Germania e della Francia potranno scegliere talenti che emergono da una base larga il doppio di quella che avrà a disposizione il ct dell’Italia. Quali squadre avranno più probabilità di vincere più spesso? E ciò che è vero per il calcio vale per un’infinito numero di attività – anche produttive – dove la bravura conta e dunque anche la possibilità di scegliere i talenti da una base ampia.

In reatà però le conseguenze economiche della denatalità purtroppo rischiano di essere più profonde di così. Date un’occhiata al grafico qui sotto da dati della Commissione europea. Rappresenta in modo schematico la domanda in Italia, cioè come e da dove viene speso il denaro che assicura il denaro che gli italiani guadagnano. Questo reddito nazionale lordo vale circa 1.900 miliardi di euro nel 2022 e di essi circa 350 vengono dagli investimenti, un po’ più di 550 miliardi sono esportazioni e il resto – qualcosa più di mille miliardi di euro – sono consumi interni. La parte più importante della nostra economia è data dai consumi degli italiani, circa 16 mila euro ciascuno all’anno (in media).

Ora, immaginate uno scenario strepitosamente ottimistico in cui riusciamo subito a invertire i trend di denatalità e dall’anno prossimo nasce il 20% di bambini in più. Sapete quale sarebbe la dimensione popolazione italiana a fine secolo (senza immigrati, ma anche senza e-migrati)? Meno di 40 milioni. E se manteniamo l’attuale natalità, arrestando il declino, ci avvieremmo a diventare una nazione di poco più di trenta milioni. In sostanza verrebbe meno una gran parte delle fonti di reddito dell’economia italiana: il Paese potrebbe stare in piedi produttivamente e sostenere il suo debito pubblico solo raddoppiando le proprie quote di export. Dovremmo diventare po’ come la Corea del Sud dove nascono in media nascono 0,8 bambini per donna – quando ne servono 2,1 solo per mantenere stabile la popolazione – eppure ha, per esempio, Samsung. Ma noi avremmo le tecnologie, l’alto valore aggiunto, il sistema di istruzione e ricerca, la capacità di valorizzare gli istruiti, cioè la cultura meritocratica e le grandi imprese per trasformarci in una spietata piattaforma da export in una globalizzazione dal futuro così incerto?

Poiché la risposta mi sembra ovvia (ma magari sbaglio io) allora bisogna pensare alla pars construens di questa questione in maniera diversa. Partendo dalle cause profonde della denatalità.

Purtroppo la ragione di fondo del continuo trend declinante dei nuovi nati è che nel nostro Paese ci sono sempre meno persone in età fertile – in particolare, donne in età fertile – e fra queste, sempre più hanno superato gli anni in cui la procreazione è più facile: è l’effetto della prima recessione demografica, che l’Italia ebbe più o meno nell’ultimo ventennio della prima Repubblica. Nel 1985 c’erano dieci milioni di donne fra i 18 e i 42 anni (come oggi in Francia, più o meno), nel 2020 ce ne sono solo otto milioni e calano ogni anno. Agli attuali trend saranno circa cinque milioni fra una generazione. Oltretutto, anche adesso le donne di quarant’anni sono molto più numerose di quelle di venti. Se non credete a me, guardatevi lo Human Mortality Database.

C’è una finestra biologica che si sta chiudendo nel nostro Paese e non basteranno gli asili d’infanzia del Recovery o l’assegno unico – tutte cose sacrosante – a cambiare il quadro in tempo utile. In questo articolo di un paio di anni fa mostro come le province italiane dalla recessione demografica più pronunciata dal 2008 in poi sono quelle in cui il numero delle abitanti in età fertile è crollato di più (e viceversa). Qualunque sia la situazione dei nidi d’infanzia o dell’occupazione femminile.

Dunque che fare? Da giornalista, ho il privilegio di poter indicare i problemi senza dover fornire soluzioni. Ma due punti provo a sottolinearli. Primo, ci vuole realismo sulla situazione e non pensiero magico nel quale noi italiani siamo campioni del mondo: la demografia è destino, non cambierà con le promesse dei politici o a colpi di bacchetta magica. Secondo, la Germania ci mostra la via: di fronte a un problema molto simile a quello dell’Italia ha avviato una politica intelligente di selezione, attrazione e integrazione di lavoratori – età media, trent’anni – dai Balcani, dall’Europa centro-orientale, dall’Asia minore o dal Medio Oriente. Sono consapevole della delicatezza politica del tema. Ma a chi la fa presente rispondo tornando al punto primo: cerchiamo di essere realisti.