Cominciamo con il concetto di agricoltura conservativa. La FAO la definisce come quel sistema produttivo che vuole ridurre al minimo il disturbo del suolo (semina diretta su terreno non lavorato), rotazioni colturali e mantenere sempre il suolo coperto. Con il termine “agricoltura rigenerativa” si intende fare un passo avanti, quello di voler recuperare la sostanza organica (SO).

Dovete sapere che la maggior parte dei suoli italiani ha un tenore di SO minore del 2%. Se questo valore dovesse raggiungere lo 0,7 non sarà più possibile coltivare: per questo non dobbiamo solo “conservare” ma “rigenerare”.

Per andare in questa direzione, non solo dovremo rispettare i principi sopra citati e imparare a gestire i residui colturali e le colture di copertura; se ci pensate, le radici e i residui sopra suolo diventano struttura stessa del suolo contribuendo, ad esempio, a ridurre la lisciviazione degli elementi minerali, a diminuire il ruscellamento, ad aumentare l’acqua trattenuta, ad abbassare la sensibilità all’erosione e ai fenomeni franosi nelle aree collinari. Il residuo inoltre è cibo per lombrichi – e altri organismi micro e macro – che contribuiscono a loro volta alla creazione del profilo del terreno: se lo lavoriamo, lo distruggiamo.

Questo tipo di approccio, che vede anche modelli aziendali da rivedere (meno attrezzature e più risparmi nelle lavorazioni), ha bisogno di meno input ed è più resiliente al cambiamento climatico, meno bisognoso di interventi fitosanitari e aumenta il sequestro di CO2 atmosferica. Su questo punto, gli agricoltori possono diventare protagonisti della cessione dei crediti di carbonio.

Diciamolo subito, non è che queste cose l’agricoltore non le sappia ma l’aratro ha il suo fascino e dimenticarsene è una sfida culturale non facile. Questi concetti non sono nemmeno sconosciuti al legislatore, infatti, se pensiamo alla produzione integrata, introdotta con l’articolo 2 della Legge n° 4 del 3 febbraio 2011 nella parte della “gestione del suolo e delle pratiche agronomiche per il controllo delle infestanti” si enuncia che: La gestione del suolo e le relative tecniche di lavorazione devono essere finalizzate al miglioramento delle condizioni di adattamento delle colture per massimizzarne i risultati produttivi, favorire il controllo delle infestanti, migliorare l’efficienza dei nutrienti riducendo le perdite per lisciviazione, ruscellamento ed evaporazione, mantenere il terreno in buone condizioni strutturali, prevenire erosione e smottamenti, preservare il contenuto in sostanza organica e favorire la penetrazione delle acque meteoriche e di irrigazione.

Leggendo con attenzione le regole, però, troviamo alcuni punti interessanti, come le tecniche da usare su pendenze importanti ma che, purtroppo, non valgono per la collina o la pianura.

Qualcosa troviamo anche nella nuova PAC che, sotto il nome di “misure agroecologiche”, come, ad esempio, l’inerbimento delle colture arboree (ECO2), cerca di andare nella direzione descritta all’inizio.

L’altra osservazione che voglio fare è quella relativa al metodo di produzione biologica: non esiste una corrispondenza diretta tra metodo biologico e incremento della sostanza organica. Questo perché in agricoltura biologica il controllo delle infestanti – problema principale – si fa tramite la lavorazione più frequente del terreno e, all’interno del suolo, un eccessiva ossigenazione accelera la sua mineralizzazione con produzione di azoto nitrico, ammoniaca e CO2.

Queste semplici riflessioni vogliono far riflettere sulla necessità di far fare un’evoluzione agli attuali metodi produttivi che vengono considerati “più sostenibili”, in quanto la perdita di sostanza organica va assolutamente fermata. Se vogliamo mantenere “vivo il suolo” e lasciarlo alle future generazioni, i principi “rigenerativi” devono diventare le pratiche da sostenere in maniera principale. Per partire, però, bisogna farle conoscere. Il 2023 può essere l’anno buono.