Molti mi hanno chiesto cosa succederà tecnicamente dopo il voto inglese. Per rispondere a questa domanda sicuramente dovremmo aspettare i prossimi giorni per sapere gli esiti del Consiglio Europeo. Qualcosa però si può immaginare raccogliendo sia le dichiarazioni fatte che prendendo in mano il Trattato di Lisbona.

In primo luogo il referendum svoltosi ha natura solo consultiva, ma il Governo inglese si è impegnato a vincolare la posizione del Governo al suo esito. Questo mostra la serietà degli inglesi. A tal proposito ricordo il referendum sull’acqua del 2011 che dal nostro Governo è stato del tutto disatteso.

Il Primo ministro David Cameron, a seguito del risultato del referendum, in una dichiarazione resa la mattina del 24 giugno alla stampa, dopo aver informato la regina, ha annunciato l’intenzione di dimettersi entro ottobre, e che sarà il nuovo Primo ministro condurre i negoziati per l’abbandono dell’Unione europea e decidere quando far scattare l’articolo 50 del TUE e avviare il processo formale per il recesso dall’Unione europea. Il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, il Presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, il Presidente in carica del Consiglio dell’UE, Mark Rutte (Olanda), e il Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, al termine di una riunione svoltasi la mattina del 24 giugno, hanno diffuso un dichiarazione comune nella quale, in particolare si:

• indica la determinazione di difendere e sostenere i valori dell’Unione che deve continuare a 27 Stati membri;

• invita il Regno Unito a dare “esecuzione quanto prima alla decisione del popolo britannico, per quanto doloroso possa essere tale processo. Ogni ritardo finirebbe infatti per prolungare inutilmente l’incertezza (…). Siamo pronti ad avviare in tempi rapidi negoziati con il Regno Unito per definire i termini e le condizioni per la sua uscita dall’Unione europea” (vedi paragrafo su “La tempistica del recesso);

• precisa che fin tanto che il processo di recesso non è completato, il Regno unito rimane membro dell’UE con tutti i diritti e le obbligazioni che da ciò derivano;

• indica che il pacchetto di disposizioni relative alla nuova intesa per la permanenza del Regno unito nell’UE, che era stato concordato in occasione del Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio 2016, non entrano in vigore e cesseranno di esistere e che non vi sarà nessuna ulteriore rinegoziazione;

• auspica che il Regno Unito rimanga uno stretto partner dell’UE in futuro e si indica che ogni accordo futuro tra l’UE e il Regno Unito in quanto paese terzo dovrà rispettare gli interessi di entrambe le parti ed essere equilibrato in termini di diritti ed obbligazioni.  A tal fine si aspetta che il Regno Unito formuli le sue proposte.

Vale la pena ricordare il partenariato dell’UE con i Paesi terzi che prevede diverse tipologie di rapporti, con una gradazione in base alla loro intensità. In particolare, l’UE intrattiene rapporti privilegiati con gli Stati che fanno parte dello Spazio economico europeo (Norvegia, Islanda e Liechtenstein), ai quali sono estesi i diritti e gli obblighi legati al mercato interno dell’Ue. Il SEE include le quattro libertà del mercato interno (libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali) e le relative politiche (concorrenza, trasporti, energia), ma non riguarda la politica agricola e la politica della pesca (sebbene l’Accordo contenga disposizioni in materia di scambi commerciali di prodotti agricoli e ittici), l’Unione doganale e la politica commerciale comune. Per quanto riguarda la Svizzera, l’Accordo di libero scambio (ALS) con l’Unione europea ha creato una zona di libero scambio per i prodotti industriali e disciplinato il commercio dei prodotti agricoli trasformati. In virtù dell’ALS, i prodotti industriali possono circolare esenti da dazi doganali tra la Svizzera e gli Stati membri se sono originari del territorio di una delle due parti contraenti. L’Accordo vieta, inoltre, restrizioni quantitative all’importazione (contingenti) e misure di effetto equivalente (per esempio modalità di vendita discriminatorie). Per i sopracitati paesi non è previsto obbligo di visto, poiché fanno parte dell’area Schengen, alla quale il Regno Unito non ha aderito. Il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha annunciato che, a margine del Consiglio europeo, si dovrebbe svolgere una riunione informale dei ventisette Capi di Stato e di Governo (quindi, senza, il Primo ministro inglese) per discutere i dettagli degli ulteriori sviluppi procedurali e avviare una riflessione più ampia sul futuro dell’Unione.

Il 24 giugno 2016 si è svolta una Conferenza dei Presidenti dei gruppi del Parlamento europeo a seguito del referendum, in esito alla quale è stata programmata una Assemblea Plenaria straordinaria del PE per il 28 giugno 2016. Secondo notizie informali, durante tale seduta potrebbe essere presentata una risoluzione in cui si invita il Regno Unito ad attivare il prima possibile la procedura art. 50 del TUE.

Ma cosa prevede l’art. 50 del Trattato sull’UE (TUE)? Il recesso di uno Stato membro non era previsto dai Trattati istitutivi delle Comunità europee. Una dottrina, quella prevalente, facendo riferimento non soltanto alle Comunità europee ma, più in generale, a tutte le organizzazioni internazionali caratterizzate da un elevato livello di integrazione, tendeva ad escludere l’eventualità di un recesso unilaterale. Altra parte della dottrina affermava, invece, la possibilità di un recesso unilaterale alla luce del principio, tipico del diritto internazionale, noto come rebus sic stantibus, per cui il cambiamento delle condizioni di contesto poteva essere invocato da uno Stato membro per giustificare il recesso. Tale principio trova puntuale riscontro nel dettato dell’articolo 62 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969. L’ipotesi del recesso unilaterale era stato inserito, dopo un dibattito assai controverso, nel corso dei lavori per la stesura del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. L’ipotesi era stata giustificata con riferimento all’eventualità di modifiche dei Trattati considerate inaccettabili per uno Stato membro che fossero state approvate suo malgrado. In base al citato art. 50 del TUE, il Paese dell’UE che decide di recedere deve notificare tale intenzione al Consiglio europeo, il quale presenta i suoi orientamenti per la conclusione di un accordo volto a definire le modalità del recesso di tale paese, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione.

Tale accordo è concluso a nome dell’Unione europea (UE) dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. In tal caso, si richiede una maggioranza qualificata più elevata di quella prevista in via ordinaria (pari al 55% dei membri del Consiglio): la maggioranza richiesta, infatti, è pari ad almeno il 72% dei membri del Consiglio rappresentanti gli Stati membri partecipanti, che totalizzino almeno il 65% della popolazione di tali Stati. Lo Stato membro che recede non può partecipare alle deliberazioni adottate dal Consiglio europeo o dal Consiglio dell’UE ai sensi dell’articolo 50 del TUE che lo riguardano. In assenza di esplicite disposizioni nei Trattati, si dovrebbe pertanto ritenere che, nelle more del perfezionamento del processo di recesso, lo Stato membro recedente continui a partecipare a tutte le altre deliberazioni del Consiglio europeo e del Consiglio dell’UE. Va peraltro osservato che l’articolo 50 del TUE non contiene disposizioni sui membri eletti al PE dello Stato membro recedente ed in quanto rappresentanti di tutti i cittadini dell’UE e non solo dei cittadini dello Stato membro dove sono stati eletti, si deve assumere che continuino a partecipare pienamene ai lavori del PE fino al completamento del processo di recesso. A differenza del processo di adesione, il recesso di uno Stato membro non necessità di essere ratificato da parte degli Stati membri. Non di meno, dovranno invece essere sottoposti a ratifica da parte di tutti gli Stati membri le modifiche dei Trattati europei e di altri Trattati internazionali che si renderanno necessarie in conseguenza del recesso. In particolare dovrà sicuramente essere modificato l’art. 52 del TUE il quale, nel definire l’ambito territoriale di applicazione del Trattato, elenca gli Stati membri. Analogamente, dovrebbero essere abrogati o modificati i Protocolli che fanno riferimento allo Stato recedente. E comunque consentito a uno Stato membro che sia uscito dall’Unione chiedere di aderirvi nuovamente, presentando una nuova procedura di adesione ai sensi dell’articolo 49 del TUE.

L’altro fattore che interessa sono le tempistiche. L’articolo 50 del TUE stabilisce che i Trattati cessano di essere applicabili al Paese interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso. In sostanza, dalla decisione assunta da uno Stato membro, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione, non discende l’immediata disapplicazione dei Trattati al medesimo Stato. E’ comunque stabilito, quale norma di chiusura, che in mancanza di accordo tra il Consiglio e lo Stato membro interessato, i Trattati cessino di essere applicabili a tale Stato due anni dopo la notifica del recesso.

Il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato interessato, può peraltro decidere all’unanimità di prolungare tale termine. Sulla effettiva fuoriuscita di uno Stato membro recedente dall’Unione e l’individuazione della data a decorrere dalla quale a tale Stato non si applicherebbero più i Trattati, era intervenuto il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, il quale il 13 giugno scorso aveva dichiarato che, data la complessità di negoziati per la definizione delle modalità delle future relazioni tra il Regno unito e l’UE, essi potrebbero durare anche fino a sette anni. La praticabilità di tale ipotesi è tuttavia subordinata all’eventualità che le parti (Consiglio, per conto dell’UE, e Stato recedente) concordino di prolungare il termine di 2 anni previsto dalla norma di chiusura richiamata in precedenza e che in seno al Consiglio non vi siano opposizioni sulla proroga da parte di altri Stati membri. In proposito, si segnala che la Dichiarazione comune del Presidente del Consiglio europeo, del Presidente del Parlamento europeo, del Presidente del Consiglio dell’UE e del Presidente della Commissione europea sembra prefigurare un processo più rapido laddove sottolinea l’esigenza di evitare ritardi nel perfezionamento del processo di fuoriuscita del Regno Unito. In termini ancora più espliciti si è espresso il Presidente del gruppo PPE al Parlamento europeo, Manfred Weber (Germania) ha dichiarato che non ci può essere nessun trattamento speciale per il Regno Unito e quindi i negoziati di uscita devono concludersi entro due anni. Per alcuni osservatori, sarebbe auspicabile che i negoziati per il recesso siano completati entro il maggio/giugno del 2019 quando si prevede lo svolgimento delle 4 elezioni del Parlamento europeo per la legislatura 2019-2024.