Prima la mosca dell’olivo, poi la Xylella infine la competizione internazionale sul prezzo tutto condito con i fenomeni legati alla contraffazione mettono il settore dell’olio italiano in grande crisi.

Occorre sapere che il 60% delle aziende oleo-olivicole italiane hanno caratteri di polverizzazione e frammentazione. In Italia esiste un olivicoltura da reddito e una ad  uso familiare, la prima, corrispondente all’ 1,3% dei produttori, produce il 25% dell’olio totale. Il 10% della produzione viene distribuito tramite i canali della “filiera corta” e le DOP e le IGP rappresentano circa il 2% dell’olio totale in commercio equivalente a circa 10mila tonnellate e corrispondente a 45 denominazioni d’origine . Numerosi sono i frantoi e pochissima l’aggregazione tra i vari produttori, poca anche la tecnologia e l’innovazione messa in campo. Alla produzione da olio si affianca anche quella delle “olive da mensa” , settore che merita anch’esso attenzione.

L’Italia non riesce a produrre olio d’oliva nemmeno per il consumo interno. I dati ASSITOL ci dicono che consumiamo oltre 600mila tonnellate di olio di oliva e ne produciamo circa 350mila e ne esportiamo 400mila, quindi la matematica ci dice che dobbiamo integrare i nostri numeri con 600mila tonnellate per lo più provenienti da Tunisia, Spagna e Grecia. Il comparto da lavoro a tre mila occupati diretti e un fatturato, al 2014, di 2,5 miliardi di euro. L’Italia, lo vogliamo ricordare, ha la stessa produzione degli anni ’60 equivalente,  che all’epoca rappresentava il 30% della produzione mondiale di olio, mentre oggi solo il 15%. Occorre decidere cosa fare da grandi? Vogliamo produrre di più o ci va bene così? In che modo vogliamo realizzare gli impianti? Vogliamo ancora raccogliere le olive con la scala e il rastrello?

I dati indicati dalla Società di Ortoflorofrutticoltura Italiana ci dice che negli ultimi 25 anni vi è un aumento della domanda che è stata assorbita dalla Spagna e da altri Paesi mediterranei (Africa e Asia) grazie agli impianti intensivi. L’Italia non ha approfittato: ci sono limitazioni strutturali (orografia, frammentazione, tradizione). Gli alti costi di produzione, e quindi la marginalità economica, rappresentano la causa dell’abbandono. L’Italia è il principale Paese importatore al mondo di olio di oliva e di olive da mensa. Servono circa 200 mila ettari meccanizzabili.

Questi alcuni motivi per cui occorre un “progetto nazionale” per l’olivicoltura, progetto che non puo’ prescindere da sapere cosa c’è in campo, quanti oliveti, cultivar, in Italia ce ne sono oltre 500, forse è ora di fare una scelta. Quali e quante sono le tipologie d’impianto? Tutti dati necessari per sapere da dove si deve partire e dove si vuole arrivare, individuando così la strada e gli investimenti. Fondamentale è capire che le cose non possono rimanere così, altrimenti non ci puo’ essere futuro. Punti chiave del progetto è l’innovazione, il rafforzamento del Made in Italy, la tutela della biodiversità e la ricerca, senza dimenticare la valenza paesaggistica di alcune zone. Oggi i competitor nel mondo aumentano, come aumentano i consumatori e noi come Italia non possiamo lasciare questi spazi di mercato, compreso quello nostro interno agli altri, anche perchè a breve diventeranno più bravi di noi e a quel punto non ci sarebbe più storia.

Per esempio, in Italia ci sono imprese con 50 alberi per ettaro accanto ad imprese in cui ve ne sono fino a 2.000, aziende irrigue accanto a molte aziende sprovviste d’irrigazione; abbiamo uliveti con una elevata produttività accanto ad impianti localizzati in zone di montagna molto meno produttivi. Ed anche le dimensioni aziendali e gli orientamenti strategici delle aziende sono assai differenti. Se pretendessimo di fare rimanere attive soltanto le aziende con più elevati livelli di produttività (e di consumo di risorse ambientali) staremmo rinunciando ad una componente fondamentale dell’economia agricola e dell’economia locale di ampie porzioni del nostri territori. E’, dunque, tenendo conto dell’esistenza di un quadro strutturale così fortemente differenziato al suo interno che bisognerà considerare i problemi di natura generale di cui sto per dire.
Il primo problema è costituito dalle ridotte dimensioni e dalla frammentazione che caratterizza la maggior parte delle aziende olivicole italiane. L’ultimo censimento dell’agricoltura ci ha fornito una impietosa fotografia della nostra olivicoltura: circa l’87% delle aziende olivicole italiane ha una superficie olivetata inferiore ai 2 ettari, e normalmente tale superficie è divisa in vari appezzamenti . La superficie olivetata di queste aziende costituisce il 44% della superficie complessivamente destinata alla coltura dell’olivo. D’altro canto le aziende con più di 10 ettari di oliveto sono solo l’ 1,2% del numero totale, ma coltivano il 21% della superficie olivicola nazionale. Le ridotte dimensioni di molte aziende impediscono lo sfruttamento delle economie di scala ottenibili mediante un più elevato livello di meccanizzazione.
Il secondo problema è quello dell’identificazione dell’azienda olivicola con il patrimonio familiare. Questo aspetto determina una sostanziale rigidità del mercato fondiario e comportamenti difficilmente giustificabili in un’ottica imprenditoriale, ma che rispondono ad obiettivi di altra natura, obiettivi di carattere sociale, culturale, ecc.. Il risultato è, ad esempio, una sovra-immobilizzazione in capitali fissi, soprattutto macchinari, il cui valore è spesso sovra-dimensionato rispetto alle dimensioni dell’azienda e ne condiziona negativamente i risultati economici.
Il terzo problema è quello di un limitato grado di professionalizzazione di un’ampia fetta dei conduttori di aziende olivicole italiane. Da un lato ci sono le aziende più piccole condotte a tempo parziale o addirittura hobbistiche: per i conduttori di queste aziende, per forza di cose, l’attività agricola costituisce un’attività secondaria, talvolta addirittura marginale, dove il costo opportunità del lavoro è prossimo allo zero. Ma anche all’estremo opposto, nelle
aziende più grandi, troviamo anche imprenditori assenteisti, perché impegnati in maniera prevalente in attività extra-aziendali, spesso nel mondo delle professioni, con una scarsa disponibilità all’investimento ed all’aggiornamento tecnologico, e che dedicano all’azienda agricola una fetta limitata del loro tempo. Sono proprio queste due tipologie di aziende che a seguito della politica di “disaccoppiamento”, realizzata con la riforma Fischler, hanno totalmente o parzialmente abbandonato le pratiche colturali e talvolta addirittura la raccolta. E’ evidente che l’aver slegato completamente il livello di sostegno al reddito assicurato dalla PAC, dal livello della produzione ha fatto venir meno l’incentivo a produrre, soprattutto nelle aziende con costi di produzione più elevati, rispetto alla media.
Il quarto problema, collegato al precedente, è quello dei limitati livelli produttivi che caratterizzano ampie porzioni della nostra olivicoltura, un fenomeno dovuto sia a motivi climatici ed ambientali, che nell’ultima campagna si sono fortemente accentuati a seguito di andamenti climatici irregolari, che ad un insufficiente livello tecnologico nella gestione degli oliveti. Pur esistendo una buona disponibilità di tecnologie, adeguate per le diverse tipologie di olivicoltura, si deve registrare un insufficiente tasso di adozione da parte delle aziende.
Il quinto problema è quello della mancanza di associazionismo nella fase della produzione agricola: solo mediante la diffusione di forme di gestione associate degli oliveti abbandonati o a rischio di abbandono si potrà sperare di riportare in produzione un patrimonio olivicolo che oggi non svolge più una funzione produttiva. Il venir meno della funzione produttiva sta facendo venir meno anche l’offerta di fondamentali servizi eco-sistemici a questa legati, come
la difesa dal dissesto idrogeologico e la funzione paesaggistica (si pensi ai numerosi oliveti delle aree collinari realizzati mediante terrazzamenti bisognosi di costante manutenzione).

Tutti questi elementi si traducono in una redditività della coltura che risulta per molte tipologie di aziende insoddisfacente e conseguentemente non genera l’interesse ad investire in olivicoltura.  E’ evidente quindi la necessità di interventi finalizzati a migliorare i redditi delle aziende. Per conseguire tale obiettivo si può intervenire su due fronti: ridurre i costi di produzione, da un lato, ed aumentare il valore della produzione, dall’altro. Per quanto riguarda la riduzione dei costi di produzione, credo che molto sia stato fatto in questi anni da molte aziende olivicole professionali che hanno rapporti col mercato, perché quel 67% di aziende (fino a 1ha di oliveti) che producono prevalentemente per l’autoconsumo o per circuiti commerciali locali non risponde facilmente agli stimoli del mercato. Per le aziende che hanno, invece, la necessità di competere su mercati sempre più internazionalizzati e competitivi, la riduzione dei costi è stato sicuramente uno degli obiettivi perseguito con maggiore attenzione in quanto direttamente controllabile dall’imprenditore.

Non bisogna, però, dimenticare che i vincoli di carattere strutturale (dimensione delle aziende, giacitura dei terreni, ecc.), che in molte realtà produttive nazionali determinano lo stato di abbandono in cui versano molti oliveti, si potranno superare solo separando la proprietà, dalla gestione degli oliveti; quest’ultima potrebbe essere affidata, mediante opportuni contratti, a strutture associative o a imprenditori professionali che, utilizzando le più idonee tecnologie e conoscenze e soprattutto concentrando e valorizzando adeguatamente il prodotto mediante la partecipazione a Organizzazioni di Produttori (OP) potrebbero consentire di ricavare nuovamente un reddito da quegli oliveti che oggi versano in uno stato di abbandono o semi-abbandono. Un tale processo potrebbe essere favorito da forme di fiscalità di vantaggio per i proprietari che concedano in conduzione a strutture associative i propri oliveti. 

A questo punto si pongono due ordini di problemi di scelta politica a) quali tipologie di olivicoltura debbano essere prioritariamente destinatarie di un sostegno realizzabile mediante un Piano olivicolo nazionale? e (b) come conciliare gli obiettivi di crescente orientamento al mercato delle aziende, e le azioni volte al loro ammodernamento strutturale, con l’obiettivo di una olivicoltura sostenibile. L’obiettivo del miglioramento della competitività di mercato delle imprese, deve essere conciliato con lo sviluppo di un’olivicoltura sostenibile, da perseguire attraverso una razionalizzazione nell’uso degli input, in modo particolare della risorsa idrica derivante dallo sfruttamento delle acque sotterranee a crescente rischio di salinizzazione. In sostanza, tenendo presente l’obiettivo generale di produrre comunque, in tutte le aziende, oli di qualità, bisognerebbe perseguire due obiettivi distinti con riferimento alle due realtà che, semplificando drasticamente, compongono l’olivicoltura italiana: le aziende a più alta produttività, derivante soprattutto alla disponibilità di risorse idriche e dalla presenza di impianti moderni, e quelle meno produttive, spesso localizzate in aree collinari, ma che svolgono un ruolo fondamentale nella offerta di servizi eco-sistemici e quindi nella conservazione dell’ambiente fisico in cui sono inserite. Bisognerebbe, da un lato, sostenere le prime nel processo continuo di adeguamento strutturale e tecnologico, ma nello stesso tempo, e probabilmente con maggiore impegno ed intensità, intervenire con strumenti adeguati per garantire la sopravvivenza delle seconde o il recupero del potenziale produttivo oggi abbandonato o a rischio di abbandono.

Una delle caratteristiche che ha dominato fino a questo momento le politiche a sostegno dell’olivicoltura è che si è intervenuti soltanto su ciò che si può vedere e toccare: i frantoi, i trattori, gli impianti per la trasformazione olearia, e così via, mentre, gli altri investimenti sul capitale umano,  sono stati considerati di minore importanza: il miglioramento delle capacità tecnico-professionali ed imprenditoriali, è invece fondamentale. Occorre aumentare gli investimento in ricerca scientifica destinata al miglioramento delle tecnologie per un’olivicoltura sostenibile e fortemente competitiva sui mercati, prevedendo anche azioni adeguate per il rapido trasferimento delle innovazioni prodotte alle imprese anche tramite la creazione di appositi Gruppi Operativi.

Da segnalare, cosa che poco si conosce, è che oggi esiste un strumento di segmentazione della eccessivamente ampia categoria degli extravergini è costituito dall’uso della indicazione salutistica (health claim) specifica degli oli di oliva. Il Regolamento (CE) 1924/2006 ha, infatti, regolamentato l’utilizzazione dei cosiddetti “claims”, ossia indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari. Per quanto riguarda l’olio di oliva, l’ EFSA ha approvato sola una delle sette indicazioni “funzionali generiche” sulla salute (ai sensi dell’art. 13 par. 1) sottoposte a valutazione riguardanti l’olio di oliva. Tale indicazione è stata successivamente autorizzata dalla Commissione Europea (Reg. UE 432/2012). In particolare l’indicazione salutistica autorizzata è la seguente: “I polifenoli dell’olio di oliva contribuiscono alla protezione dei lipidi ematici dallo stress ossidativo” accompagnata dalla seguente frase: “L’effetto benefico si ottiene con l’assunzione giornaliera di 20 g di olio d’oliva”. Questa indicazione può essere impiegata solo per l’olio d’oliva che contiene almeno 5 mg di idrossitirosolo e suoi derivati (ad esempio, complesso oleuropeina e tirosolo) per 20 g di olio d’oliva (250mg/1000 g). Essendo il contenuto di polifenoli di un olio di recente produzione variabile tra un livello minimo 45,6 mg/Kg ed un livello massimo di 931,2 (Servili, 2013) questo parametro permette di discriminare tra oli che posseggono il livello minimo per fregiarsi della indicazione salutistica e quelli che non raggiungono tale soglia. Un recente lavoro del gruppo di ricerca coordinato dal Prof. Sacchi (Caporano et al 2015) ha analizzato trentadue oli dei principali marchi prelevandoli da uno scaffale di un supermercato al fine di verificare il possesso dei requisiti per l’uso delle indicazioni salutistiche. Dalle analisi è risultato che solo il 10% del campione poteva vantare un contenuto di polifenoli sufficiente ad utilizzare il claim e tale livello era raggiunto soprattutto dagli oli 100% italiani e DOP. E altrettanto evidente che un claim di così difficile comprensione necessita di un’adeguata comunicazione da realizzare con campagne promozionali ed informative efficaci, che vedano un congruo investimento finanziario, la diversificazione delle forme di comunicazione, ed un’adeguata durata nel tempo.